Storie sul comune di AVEZZANO
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Cenni storici sul territorio [ torna all'indice ] | [ chiudi questa sezione ] |
Il territorio attuale di Avezzano è il risultato delle vicende storiche che, dal finire del Duecento e fino al termine del XX secolo, portarono lo stesso ad inglobare altri centri vicini con un'estensione attuale di 104 kmq su cui si muovono 38.858(1) abitanti, pari a 373,6(2) ab. per kmq. Le frazioni sono otto(3): Antrosano, sul declivio di base del colle albense; Case Incile, sull'imbocco fucense dell'Emissario romano del Fucino; Castelnuovo, sotto la catena montuosa di Monte Uomo e vecchio feudo medievale; Cese, sui Piani Palentini sotto il monte di Pietraquaria; Paterno, sul versante fucense di Monte Uomo e vecchio feudo medievale; San Giuseppe di Caruscino, sul versante fucense nel luogo dove era una delle stanghe da pesca del Fucino nel Medioevo; S. Pelino, vecchia frazione fucense di Massa d'Albe; Borgo Via Nuova, nella piana fucense lungo la strada voluta dai Colonna nel '500. Il centro urbano si estende sulle quote 670÷740 metri s.l.m., sui bordi settentrionali dell'alveo fucense su di un leggero pendio degradante verso le rive dell'ex lago Fucino contornato, ad ovest dalle alture di Cimarani (ex 'Cima Grande'), Aria e Salviano (ex 'Monte Arrio'), mentre a nord-est sono i monti Cervaro e Uomo. Le altitudini vanno dal massimo di 1.398 metri s.l.m. dei 'Tre Monti', sopra Paterno, e di 652 della Piana Fucense. Sul settore nord-ovest, è il basso colle di Cesolino che si apre verso i Piani Palentini in direzione di Cappelle, mentre a nord il caratteristico profilo collinare dell'antica città e colonia romana di Alba Fucens, segna alla base il massiccio del Velino. Le frazioni descritte, permettono al centro attuale di aprirsi a ventaglio verso i Piani Palentini (Cese e Antrosano), il Velino (Castelnuovo), la piana fucense ad est (S. Pelino e Paterno) e sud (Case Incile e Borgo Via Nuova). Dall'analisi delle attuali infrastrutture urbanistiche e delle potenzialità economiche del territorio (Nucleo Industriale dell'Incile, Centri Commerciali di Cappelle e S. Pelino, Agricoltura sul Fucino), si evince la straordinaria evoluzione di questo centro che da semplice villa del territorio albense ha saputo, per la sua felice posizione geografica, prendere l'eredità della vecchia colonia romana di Alba Fucens per diventare il centro egemone della Marsica durante il XIX secolo. Del vecchio ed importante centro storico non rimangono testimonianze eccetto il restaurato Castello Orsini-Colonna, ora in piena funzione, di un brandello della parrocchiale di S. Bartolomeo e del ricostruito complesso sacro di S. Giovanni. Il prosciugamento della seconda metà del XIX secolo, il terremoto del 1915 ed i bombardamenti alleati della II guerra mondiale, hanno profondamente alterato il rapporto fra l'uomo e l'ambiente con la nascita di un nuovo abitato di tipo 'coloniale' popolato da genti provenienti dai paesi vicini e da tutta l'Italia. Solo nell'ultimo decennio sta rinascendo l'interesse per la riscoperta delle 'radici', al fine di ridare una dignità storica alla città contemporanea che si appresta a diventare sede di una provincia abruzzese. a cura del Prof. Giuseppe GROSSI da www.comune.avezzano.aq.it N.d.E. 1 il numero degli abitanti è di 41.500 ( ISTAT 2020 ) 2 densità 398,89 ab. per kmq. ( ISTAT 2020 ) 3 sono nove (9), infatti va aggiunta la frazione di Madonna di Pietraquaria | |
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Dal Paleolitico [ torna all'indice ] | [ chiudi questa sezione ] |
all'età del Bronzo « Aedificiorum magnificentia, & civilis vitae cultura primarium, locum Oppidum istud facile obtinuit, domorum , viarumque ornatu spendidum, dignum quippè, ut Principis fedes ibidem eligerut, cum Civitatis formam praefeferat, muro undique vallatum, quem horti oleum consepiunt, ex tribus portis aperitur ad commeandum iter, ampli stratarum tractus, comis arborum utraque ex parte protecti deambulationibus, & Viatoribus gatum in meridie umbraculum praebent, & postema portam quae as occasum respicit amplum ridet, omni tempore virens pratum animalibus ad pascua, & hominibus ad palestram, & ad excutiendum ex aristis frumentum praeparatum. Fixerat olim extra moenia ad prospectum prati praeclarissimae Ursunorum famiglie Gentilis Virgilius ad praesidium arcem vallo, fossoque; quatuor in singulis angulis turribus, & quae principatum habet ad quintum locum in medio extollitur artificiosè munita, ad quam, ponte iniecto. » (Phoebonius 1668, III, 146-147): trad. ital. = « Per la magnificenza degli edifici, per la pratica della vita civile, questa città facilmente prese il primo posto (fra gli altri centri abitati), splendida di case e di strade, degna di essere scelta come sede del Principe, allorché ebbe assunta forma di vera città cinta da ogni parte di mura, assiepata torno torno da orti, aperta alla campagna da tre porte, su ampi tratti di strade protette ai lati da vaste chiome d'alberi, ricche di frescura gradita a chi le attraversa nel meriggio; bellissimo il territorio che s'apre al di là della porta occidentale, verde in ogni tempo di prati adatti ai pascoli degli animali, agli spassi degli uomini, a far da aia per le puliture del frumento (al tempo del raccolto). Gentile Virgilio, della celebre famiglia degli Orsini, di fronte a questi prati, fuori le mura, fondò a presidio della città un castello con vallo e fossato, e con quattro torri ai lati ed una centrale, più alta delle altre, alla quale s'accedeva con ponte levatoio, rafforzata ad arte.». Così il Febonio descriveva entusiasticamente a metà del Seicento la sua città natale, ormai avviata a diventare il principale centro abitato della Marsica moderna, ma le sue fortune erano la conseguenza della particolare posizione geografica e della evoluzione dei suoi numerosi insediamenti umani che si erano succeduti dal Paleolitico all'età medievale. a cura del Prof. Giuseppe GROSSI | |
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Dopo le Guerre Sannitiche [ torna all'indice ] | [ chiudi questa sezione ] |
Con la fine delle Guerre Sannitiche, l'area presa in esame, continua ad avere una notevole importanza strategica con la colonia di Alba Fucens posta nel crocevia di collegamento tra i territori dei Sanniti e dei loro vicini alleati, Umbri ed Etruschi. Questa importanza strategica contribuì anche ad un controllo commerciale dei sistemi viari diretti verso il sud della penisola con lo sviluppo economico delle ville poste nel territorio agrario coloniale. Furono questi gli sviluppi che crearono i presupposti per l'emissione monetale di Alba avutasi intorno al 270 a.C. fino al 263 circa, emissione creata più per motivo di prestigio che per necessità reali: « Va comunque precisato che la moneta nel III secolo a.C. non era, a differenza di oggi, certamente uno strumento indispensabile per gli scambi. L'ambiente italico e romano di questo periodo era ancora troppo intensamente legato al baratto per poter credere ad un uso della moneta quale intermediario sugli scambi. Vale la pena di pensare, invece, che l'emissione di moneta di questo periodo, soprattutto se caratterizzata da un numero veramente esiguo di pezzi in circolazione, come nel caso di Alba Fucens, possa rispondere piuttosto a motivazioni di prestigio, cosa che troverebbe immediato riscontro nella presenza del nome della città su tutti i nominali. Alba Fucens ha emesse una serie di piccole monete in argento composta da almeno tre diversi nominali. La presenza su tutti i valori del nome della città, ALBA, in caratteri dell'alfabeto latino, esclude ogni possibile dubbio di attribuzione. La tipologia utilizzata per i coni (testa di Hermes e di Atena, grifo alato, aquila retrospiciente e un delfino) sono evidentemente derivati dall'ambiente greco di Magna Grecia, così come il sistema ponderale sulla base del quale sono stati emessi i valori, probabilmente un di obolo, un obolo ed un semiobolo (rispettivamente del peso di g 1,26, g 0,62 e g 0,30). L'emissione di questa serie appartiene senza alcun dubbio al periodo della colonia, ma è da scartare l'ipotesi, già avanzata, che essa sia stata prodotta nei primi anni di vita della colonia stessa. È da credere piuttosto che l'emissione, di breve durata, debba aver interessato un periodo immediatamente successivo la sconfitta di Pirro (270 a.C.) per effetto di una apertura commerciale di Alba Fucens verso i mercati del Sud, del Sannio, dell'Apulia e della Campania. La tipologia, il sistema ponderale e i pur rari casi di rinvenimento ne sono una conferma. » (Catalli 1992, 14-15). I numerosi ritrovamenti monetali avvenuti nel centro storico di Avezzano durante lo sgombero delle macerie provocate dal terremoto del 1915, composti da ben 292 monetine d'argento di età repubblicana, fra cui alcune albensi (con Aquila che stringe i fulmini con scritta Alba e testa di guerriero con elmo - anni 270-263 a.C.) (Pagani 1968, 77-78), sono prova della vitalità economica della locale villa degli Avidii durante il III secolo a.C., in un periodo in cui, come abbiamo già visto, la colonia albense si aprì al commercio verso il sud della penisola italiana, in direzione dei mercati del Sannio, Campania ed Apulia. Nel finitimo territorio marso il fenomeno, già evidenziato, del mercenariato italico è ancora attivo: la vicina Valle Roveto, probabilmente, continua ancora per tutta la prima metà del III secolo, ad essere attraversata dai mercenari Marsi diretti in Campania e Lucania per essere reclutati dalle potenze del Mediterraneo (Greci e Cartaginesi). Questi temibili guerrieri (« figli di Marte ») lasciano le loro tracce dal V al III secolo a.C. nei santuari fucensi, palentini e lirini, attestate da bronzetti di Marte ed Ercole loro numi tutelari e dalla monetazione in argento e bronzo delle città campane, della Magna Grecia, greche, sicule e puniche (Grossi 1990a, 288-292). Solo dal trattato romano-cartaginese del 241 a.C., al termine della II guerra punica, che proibì ai Cartaginesi di arruolare mercenari in Italia, la mobilità sociale geografica italica, rappresentata dalla pratica del mercenariato, venne meno con la conseguenza di costringere i socii marsi al solo servizio militare a favore di Roma che « sembra in sostanza adempiere la stessa funzione demografica ed economica in precedenza assolata dal mercenariato e dalle altre attività predatorie tradizionali. » (Tagliamonte 1994, 220). I materiali votivi, bronzetti di Ercole e monete, sono, come già affermato, legati al mondo del mercenariato e della mobilità sociale geografica dell'area. I bronzi di Ercole, databili fra il V e II secolo a.C., sono attestati nei santuari marsi, equi e nel territorio avezzanese a Scalzagallo con iscrizione votiva a S. Nicola. Essi erano le divinità tutelari delle spedizioni militari del mercenariato safino, come già dimostrato, e successivamente dei militari italici e coloniali al servizio di Roma. La loro diffusione sulla direttrice Fucino e Liri comprende, oltre i Piani Palentini e la valle Roveto, anche la media valle del Liri con esemplari ad Alvito e Atina ed oltre fino a Cassino (Fortini 1988, 257-260). Era questo l'itinerario principale percorso dalle bande mercenarie dirette in Campania ed oltre. Questa strada “lirina”, detta nel medioevo « via antiqua quod dicitur Marsicana », dovette costituire il percorso più importante che dalla Campania portava nell'alta valle del Liri e attraverso i Piani Palentini, nel Fucino. Tramite essa dovette arrivare nella Marsica ed Abruzzo interno, la monetazione greca e campana di IV-III secolo acquisita dai mercenari come pagamento dei loro servizi. Questa monetazione è documentata nel territorio avezzanese: un obolo d'argento di Phistelia del IV secolo a.C. ed una semuncia della serie prorata (Mercurio / prora con scritta Roma) dal santuario della Grotta di Ciccio Felice; due monete d'argento di Neapolis della fine del III secolo a.C. dal santuario di Scalzagallo, oltre naturalmente da diverse monetine d'argento della zecca albense rinvenute nel centro storico di Avezzano, ma legate all'uso dei locali possessores albensi. La via del mercenariato marso ed equo verso la Magna Grecia, in precedenza citata, è quella che, partendo da Cassino, per Atina e Sora, raggiunge la Valle Roveto passando sul versante orientale della valle (non sul fondovalle, ma a mezzacosta), collegando Balsorano Vecchio, S. Giovanni e S. Vincenzo Valle Roveto superiore, Morrea, Civita d'Antino, la località Casale di Civitella Roveto, Capistrello, Piani Palentini ed il Fucino. Non a caso lungo questo tragitto sono situati fana (santuari), vici ed Antinum oltre, naturalmente, necropoli. Non va confusa questa strada con l'altra di fondovalle, fatta realizzare da Traiano nel 100 d.C. per collegare rapidamente Alba Fucens con Sora e Frusino (l'attuale Frosinone), ancora ben visibile sotto Capistrello e Pescocanale con la sue tagliate nella roccia (Grossi 1992). Nella nuova realtà coloniale albense degli inizi del III secolo a.C., i centri fortificati marsi descritti sono ormai abbandonati ed i loro ambiti comunitari si trovano inseriti nel nuovo territorio della colonia di Alba Fucens (« Ager Albenses »): i Piani Palentini con Corcumello, la catena montuosa del Salviano (dal Monte S. Felice di Cappelle ai “Tritermini” di Capistrello-Luco dei Marsi), la Valle di Nerfa (da Cappadocia al Fosso della Rianza di Pescocanale) con Capistrello, il piano fra Avezzano ed il Rio La Foce di Celano, sono ormai parte integrante del territorio albense. Ai Marsi rimane solo, il territorio lirino posto a meridione del Fosso di Rianza di Pescocanale (da Pescocanale a S. Vincenzo Valle Roveto), il territorio oltre l'Incile verso Luco dei Marsi e quello oltre il Rio La Foce di Celano in direzione di Aielli. Gli abitanti italici, marsi ed equi, degli insediamenti presenti nel nuovo territorio di Alba Fucens, sono ormai parte integrante della componente umana coloniale e, con i coloni romani, inseriti nella tribù Fabia. D'ora in poi sulle lastre tombali delle numerose necropoli palentine ed avezzanesi comparirà il nome della tribù Fabia, a segnalare l'appartenenza alla colonia romana. Le tribù romane, che prendevano il nome dalle famiglie patrizie dell'Urbe (la Fabia era legata alla gens Fabia), costituivano in quel periodo « le unità amministrative per il censo, la tassazione e la leva militare, come pure per le assemblee della plebe. Comizio » (Diz.Lett.Cl.1997, 966). Con il III secolo a.C. la Valle Roveto, come in tutta la Marsica, cambia il suo aspetto insediamentale con la nascita di nuovi abitati collinari e di pianura non fortificati, i « vici »; villaggi di piccole e medie dimensioni che nel tempo soppiantano i centri fortificati nelle funzioni territoriali e che avranno lunga vita fino all'alto medioevo (Letta 1988c, 223-227). È questo il periodo in cui, nel territorio marso, si afferma una struttura insediamentale di tipo « oppido-vicano » con grandi centri fortificati distrettuali retti da magistrati pubblici, meddices, e numerosi villaggi dotati di veri e propri santuari interni o posti nelle vicinanze. Si sviluppano le arterie viarie con la creazione di vere e proprie strade (tagliate nella roccia o in terra battuta retta da muretti) delimitate da necropoli longitudinali di tombe a cassone di pietra, a grotticella con stele-chiusino a forma di porta ed a cappuccina di tegole nei territori coloniali (Grossi: 1988, 111-112; 1991, 202-204). I santuari si strutturano architettonicamente in forme monumentali, ad imitazione di quelli di area campana, con impianti: su pendii collinari e montani sistemati a terrazze degradanti, rette da raffinata opera poligonale, ed adattamenti sulla roccia; in pianura con porticati di contorno ed ambienti artigianali collegati. I templi sono: i più antichi, senza podio, ripetono la tipica pianta tripartita con vestibolo porticato sul davanti delle case gentilizie arcaiche; i più recenti, sono posti su alti podii modanati con colonne di calcare sulla fronte ed antistanti edifici teatrali. Sono gli stessi santuari, già presenti, anche se non in forme così monumentali, nel V-IV secolo, a costituire il punto di riferimento economico del territorio e di aggregazione dei nuovi vici. Ben diversa e la situazione dei santuari rurali, posti presso valichi e importanti vie di comunicazione. Essi svolgono la funzione di luoghi di sosta e rifugio sulle alte quote, mentre i più grandi a fondovalle sono preposti come luogo di mercato, di scambio con le comunità vicine, oltre ad essere punto di arrivo di pellegrinaggi se la fama dell'istituto cultuale superava l'ambito etnico su cui insisteva (Grossi 1992, 36-37). In tutti questi santuari continuano ad essere presenti gli ex-voto bronzei e la monetazione legata alla pratica del servizio militare a favore di Roma, pratica fondamentale per l'economia delle genti marse e coloniali. Sono sostanzialmente le entrate dei mercenari operanti in Magna Grecia e Sicilia, prima, e dei militari italici e coloniali al servizio di Roma, dopo, a fare la fortuna del santuario. A questi s'inseriscono gruppi familiari emergenti locali che, grazie ad amicizie fra le gentes di Roma, riescono ad entrare come mercatores (mercanti), nel commercio mediterraneo romano, soprattutto nel II secolo a.C. Sono solo loro a poter disporre di ingenti somme di denaro da utilizzare per l'acquisto in loco di terreno agrario o per abbellire il luogo sacro con nuovi apparati architettonici e donari. Gli stessi fenomeni avvengono nei territori delle colonie ad esclusione, forse, della sopravvivenza degli apparati difensivi arcaici in contrasto col carattere accentratore della colonia romana. Infatti, è la fortezza coloniale con le sue alte e raffinate mura, le sue truppe ed i suoi magistrati ad assolvere il compito amministrativo e difensivo dell'ager (territorio) albense e sorano. Con l'inserimento nel distretto coloniale romano, il territorio palentino- fucense si trasforma con la nascita di una nuova struttura insediamentale basata prevalentemente su vici (villaggi), fundi (fondi agricoli) caratterizzati da ville rustiche albensi e fana (santuari); il territorio agrario è ripartito in lotti regolari con la creazione di fossi di scolo e drenaggio, di tracciati viari primari e secondari costellati di necropoli. Riguardo a quanto già detto l'archeologo belga Mertens dice: « Non si può pensare all'insediamento di una colonia senza una preventiva sistemazione del territorio circostante; i confini dell'ager albenses coincidono probabilmente con una serie di ostacoli naturali, quali il massiccio del Velino a nord, il passo di Monte Bove ad ovest, l'alta valle del Liri a sud e il lago Fucino ad est. Alcuni cippi confinari scoperti nei pressi di Scanzano e di S. Anatolia e vicino all'emissario del Fucino potrebbero costituire degli utili punti di riferimento; la superficie della zona così circoscritta può essere valutata a 320 km2, ossia circa mille volte la superficie della città stessa. Tutto questo territorio non è soltanto solcato da strade ma anche diviso in lotti o particelle (centuriatio); secondo il liber coloniarum questa centuriazione sarebbe stata realizzata nel 149 d.C. probabilmente dopo il prosciugamento definitivo del lago Fucino; è tuttavia probabile che la lottizzazione sia più antica. L'orientamento delle parcelle, quadrate o rettangolari, si adatta al rilievo del terreno e riprende, con circa 8 gradi di differenza, l'orientamento degli assi della città. Le tracce della lottizzazione del territorio sono chiaramente visibili sulle foto aeree; sul terreno sono ancora riconoscibili nei Campi Palentini intorno a Cappelle e a sud est d'Avezzano. Questo tipo di realizzazione conferma l'importanza economica della zona di Alba, le cui culture cerealicole, frutticole e vinicole sono segnalate dalle fonti antiche; l'industria del legno doveva essere importante, così come la pesca sul lago Fucino, prima della sua bonifica; nelle zone di montagna si praticava la pastorizia » (Mertens 1981, 19-20). Uno studio recente della divisione agraria albense ha dimostrato che essa fu realizzata, nella sua prima fase, nei primi anni del III secolo a.C. con il sistema della strigatio, cioè per soli decumani (assi orientati a nord-est sud-ovest) con la divisione per limites paralleli, non tagliati da perpendicolari, distanti fra loro circa 425 metri (= 12 actus romani) (Chouquer 1987, 131-132; Van Wonterghem 1989, 35-36). Ebbene questa prima divisione agraria albense giunge a Capistrello comprendendo tutti i Piani Palentini sui limiti a sud-est, mentre è inesistente nell'alta valle del Liri dove la strettezza della stessa non permetteva una regolare divisione agraria. Maggiormente visibile rimane nel tratto fra Avezzano e Celano, dove gran parte della viabilità rurale riutilizza, quasi per intero, queste delimitazioni stradali della centuriatio albense. Per l'età repubblicana, dalla prima metà del III fino agli inizi del I secolo a.C., le testimonianze archeologiche sono presenti nella località S. Nicola, Ciccio Felice e Scalzagallo. Un santuario di Hercole era nel luogo della chiesa di S. Nicola lungo la strada antica che da Alba Fucens portava ad Anxa attraversando il vicus di S. Maria e S. Lorenzo in Vico, come attestato da una base votiva decorata in alto da un piccolo fregio dorico, ora conservata nel Museo Lapidario Comunale, ma proveniente dalla chiesa di S. Nicola di Avezzano (CIL IX, n. 3907; Catalli 1998, n. 1): Herculei.d(onum) [d(ederunt)] / milites.africa[ni] / [C]aecilianis. / mag(ister).curavit / C(aius).Saltorius. C(aii).f(ilius). = trad. ital. « Ad Ercole diedero in dono i soldati africani (provenienti) dai Castra Cecilia. Caio Saltorio, figlio di Caio, magistrato curò (che fosse fatto).»; « L'iscrizione ricorda il dono fatto ad Ercole, divinità particolarmente venerata in terra italica, da soldati africani provenienti dagli accampamenti Cecilia. I militari erano organizzati in collegia capeggiati da un responsabile, il magister, che ha provveduto alla regolare esecuzione del dono votivo. È stato ipotizzato che il riferimento ai Castra Cecilia sia da ricollegare con i soldati al seguito di Cecilio Metello impegnati nella guerra (109-108 a.C.) contro Giugurta, re di Numidia. Gli stessi soldati avrebbero avuto in dono terre nella zona albense. Da notare Caecilianis certamente un nominativo plurale arcaico e il cognome del magister Saltorius, estraneo alla regione.» (Catalli 1998, cit.). Il santuario era probabilmente relativo al vicus (Arrium?) posto nelle vicinanze dell'Emissario, sotto il centro fortificato di “Castelluccio” del Monte Salviano. Altre aree cultuali sono, la Grotta di Ciccio Felice di tradizione italica e il santuarietto italico-romano di Scalzagallo con i suoi votivi italici ed albensi. Della prima area cultuale abbiamo già parlato in precedenza, in relazione al suo legame con una divinità della fecondità locale e di un possibile rito dell'uncubatio. La fase monumentale dell'età del ferro, costituita dalle sei mensae ricavate sul piano roccioso, viene in età repubblicana affiancata da un muro di terrazzamento in opera poligonale di III maniera posto all'imbocco della caverna e su cui si elevava un prospetto architettonico ornato di colonne e frontone. L'ipotesi di un rito di “incubazione” espressa dal Radmilli è affascinante ed è probabilmente confermata da indizi successivi come il rito “lattario” attestato nel Rinascimento nella vicina chiesa del S. Padre, ricavata nella Discenderia Maggiore dell'Emissario romano del Fucino, antro sacro dove le donne marsicane raccoglievano oggetti immersi in una pozza d'acqua sorgiva allo scopo di aver abbondante flusso di latte (Phoebonius 1668, II, 92). L'esistenza di una sorgente nella stanza interna con pozze sottostanti cosparse di frammenti ceramici e l'abbondanza di ex-voto, riferibili a falli, uteri e seni, potrebbe confermare l'origine del rito proprio in questo santuario che secondo la Terrosi Zanco potrebbe essere connesso con il culto di Angizia (Terrosi Zanco 1966, 289-290), ma più probabilmente alla stessa associata alla sorella Vesuna dai caratteri più propriamente ceriali e quindi connessi con la sfera della fecondità. Gli ex-voto fittili analizzati dalla Zanco ed altri presenti nel musei di Chieti ed Avezzano, sono databili al III-I secolo a.C. fino agli inizi del I secolo d.C. con statuette panneggiate, teste velate femminili e maschili, molte mascherine funerarie rettangole con raffigurazione di volto umano, piedi, mani, bambini avvolti in fasce, falli, uteri, seni, vasetti miniaturistici ad impasto ed a vernice nera, balsamari in vetro, pesi da telaio, fusaiole, una moneta argentea di Phistelia del termine del IV secolo a.C. ed altra, una semuncia di bronzo della serie prorata del 197-187 a.C. con testa di Mercurio e Prora di nave con scritta Roma (Terrosi Zanco 1966, 274-284; Inv.Mus.Avezzano, nn. 2-4, 9, 15-18, 36-38, 45-56). Fra l'altro la sovrapposizione medievale del culto di S. Felice, documenta questo aspetto legato alla fertilità umana: S. Felice, Papa dal 269 al 274, era onorato nel medioevo il 30 maggio nel mese della fertilità ed il cui nome Felice e legato ai termini: fertile, fecondo e nutriente (Pierrard 1990, 85-86). Altro importante santuario del territorio albense è quello di Scalzagallo o “Cretara”(ex Perracle o Perrate) nell'odierno quartiere residenziale di Avezzano. I ritrovamenti avvennero negli anni '70 del Novecento, durante la realizzazione della villetta dell'artista avezzanese Pasquale Di Fabio in via dei Tulipani, a quota 718. Non abbiamo la descrizione dei resti, ma solo materiali di III-II secolo a.C. riferibili a: coppe a vernice nera e patere dell'atelier des petites estampilles, (285- 265 a.C.); olpay globulari acrome; olle acrome dotate di tre piedini troncoconici di base con coperchio dotato di presa a rocchetto; un bel frammento fittile dipinto di elemento coroplastico templare con decorazioni a palmette, toro e gola; pochi frammenti di ex-voto anatomici ed animali ed un fondo di coppetta appositamente bucherellato (Grossi 1989b, n.12, 43 nota 18). Dalla stessa area, da villette adiacenti, sono stati trovati in passato due bronzetti di Ercole combattente di fine IV ed inizi del III secolo a.C. oltre a due monete d'argento di Neapolis della fine del III secolo a.C. Dall'insieme dei materiali, è chiaro il rapporto dell'area cultuale, posta lungo un decumano della centuriazione, con le genti italiche locali ed i coloni albensi con i loro vicini insediamenti rurali. Nonostante questa ricchezza delle aree cultuali, serie difficoltà si prospettavano per gli Albensi sul finire del III secolo a.C., dopo il florido e pacifico esordio coloniale di gran parte del secolo; nel 211 quando Annibale si avvicinò a Roma, duemila cittadini albensi armati giunsero a Roma per difenderla dal probabile attacco punico (Appiano, Guerra Annibalica, 39). Due anni più tardi l'atteggiamento favorevole all'Urbe cambiò, forse perché spossati dalla dura guerra, gli Albensi rifiutarono, come altre città alleate, di mandare ulteriori aiuti a Roma (Livio, XXVII, 9); rifiuto giudicato da Roma come ribellione e quindi fonte di un duro intervento romano verso la colonia (Livio, XXIX, 15). Il secolo successivo vede la colonia utilizzata dal senato romano come sede ideale per l'internamento dei sovrani e principi sconfitti da Roma. Vi furono, infatti, deportati Siface, re di Numidia (Livio, XXX, 17, 45), Perseo re di Macedonia (Polibio, XXXVII, 16) e Bituito re degli Arverni (Livio, Per., 61; Valerio Massimo, IX, 6, 5). Agli inizi del I secolo a.C., dal 91 all'88, l'area presa in esame fu sicuramente interessata dagli avvenimenti legati al « bellum Marsicum », l'ultimo epico scontro fra Roma e gli ex Safini, con le inevitabili conseguenze sulle strutture insediamentali. Sebbene l'ipotesi dello Squilla sulla localizzazione nella Valle Roveto del combattimento dell'11 giugno del 90 fra il console romano Rutilio Lupo e il comandante marso Vettio Scatone, non sia sostenibile (il luogo dello scontro è localizzabile nella valle del Turano), pur tuttavia la posizione geografica, fra Alba Fucens e Sora, dovette necessariamente dare luogo a combattimenti, soprattutto nel periodo in cui Roma cercò di liberare Alba assediata dai Marsi (Squilla 1966, 81-84). Le direttrici romane verso il Fucino in questa dolorosa guerra sociale, documentate dalla lettura critica delle fonti, dovettero essere quelle del Turano-Imele, Salto-Imele e quelle del Liri per Sora (Servio, Ad Aen., IX, 587). Alba Fucens, dalle prime fasi della guerra, era rimasta fedele a Roma rifiutando una partecipazione al fronte “marso” e per questo motivo fu ripetutamente attaccata dagli insorti italici (Livio, Per., 72); non abbiamo notizie sulla sua presa da parte delle truppe “marsiche” di Poppaedius Silo, quindi, rimase libera sino al termine del conflitto. Probabilmente nella vicina alta valle del Liri, o in quella del Turano, si svolse la prima sconfitta dei Marsi nel 90 a.C., per opera di Mario, data la citazione di « vigne » racchiuse da muri, muri abbastanza alti da offrire sicuro rifugio a Marsi e Marruccini (Appiano, civ., I, 46, 201-202). È molto probabile invece che la Valle Roveto sia stata utilizzata nelle operazioni conclusive della conquista romana del settore fucense della fine dell'89 a.C., quando i Marsi si arresero ai legati di Strabone, Lucio Murena e Quinto Cecilio Metello. Ritrovamenti legati alle azioni belliche di questo periodo, sono i numerosi missili di piombo per fionda rinvenuti nell'interno dei centri fortificati di Monte Cimarani e S. Felice, utilizzati dai frombolieri italici e romani durante gli assedi (Grossi 1990b, 70-71; Grossi 1992, 42 nota 52). A questi avvenimenti della Guerra Sociale legati al possesso del territorio albense e da riferire il ritrovamento di un tesoretto monetale rinvenuto ad Avezzano dentro un muro antico, dopo il terremoto del 1915, durante lo sgombero delle macerie in Via Aloysi, a circa trecento metri dalla chiesa di S. Bartolomeo; consisteva in monete d'argento d'età repubblicana il cui conio più recente giungeva fino al 90 a.C. (Pagani 1968, 77-78). Si potrebbe collegare questo occultamento monetale alla presenza nella stessa Via Aloysi della parte centrale della villa degli Avidii nell'interno del loro fundus attestato successivamente nell'area. Altri avvenimenti drammatici segnano la prima metà del I secolo a.C. nell'area avezzanese con i costanti conflitti delle Guerre Civili fra Mario e Silla (87-82 a.C.), fra Cesare e Pompeo e fra Ottaviano e Antonio. Gli Albensi parteggiarono apertamente per Mario e per la successiva dinastia giulio-claudia, provocando le ire e ritorsioni di Silla, Pompeo ed Antonio cui seguirono assalti, uccisioni, incendi e distruzioni degli edifici cittadini, delle ville sottostanti ed anche assegnazioni terriere ai veterani. Riguardo a quest'ultimo fenomeno, si ricorda l'assegnazione di parte del territorio albense, per ritorsione verso i “mariani” albensi, ai veterani del comandante di Silla, Metello Pio, come attestato da un'iscrizione conservata nel Museo Lapidario di Avezzano (CIL IX, n. 3907; Catalli, 1992, 16). Con la fine della Guerra Sociale, intorno alla metà del I secolo a.C., la romanizzazione del finitimo mondo marso sarà completa con la nascita dei municipia e le relative divisioni territoriali che ricalcheranno i confini fra i Marsi e le colonie romane dell'area. I cittadini fucensi e palentini continueranno a servire Roma anche come componenti del Senato romano, ma soprattutto a partecipare numerosi alle campagne militari come testimoniato dai numerosi fregi militari ed iscrizioni che attestano le fortune dei locali nei quadri dell'esercito imperiale: caso rappresentativo è quello dell'albense Quinto Naevio Cordo Sutorio Macrone che, sotto Tiberio, raggiunse la massima carica militare dell'epoca, quella di prefetto dei vigili e del pretorio di Roma, come documentato dalle due grandi iscrizioni poste sulla facciata dell'ingresso all'anfiteatro di Alba Fucens, struttura di spettacolo da lui regalata, per testamento, ai suoi concittadini: Q.Naevius.Q.f.Cordus.Sutorius.Macro / praefectus.vigilum. praefectus.pretori / T. Caesaris.Augusti.testamento.dedit (Mertens 1981, 65). a cura del Prof. Giuseppe GROSSI da www.comune.avezzano.aq.it | |
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I Cunicoli di Claudio - tra il 42 ed il 51 d.C. [ torna all'indice ] | [ chiudi questa sezione ] | |||
La storia di un prosciugamentoI Marsi, abitanti dei paesi che si affacciavano sul Lago Fucino (si pronuncia Fùcino) , erano rinomati per la loro abilità nell'arte di guarire malattie e ferite e per la loro conoscenza delle virtù delle piante, dal succo delle quali sapevano estrarre filtri e veleni. Il primo a tentare il prosciugamento del lago fu Cesare che per procacciare i viveri alla capitale (ma anche per sedare l'animo dei Marsi) promise di prosciugare il Fucino; ma si narra che anche l'imperatore Tiberio si adoperò presso il senato per costringerlo in tale opera, soprattutto perché a Roma le vettovaglie scarseggiavano. E' certo che i Marsi sollecitarono con insistenza il prosciugamento del loro lago per dare terre ai vecchi legionari del paese. Sempre Svetonio aggiunge: "Egli intraprese il prosciugamento del lago, non meno per desiderio di guadagno che di gloria e rispose con un rifiuto ai molti che si offrirono di eseguire l'opera a loro spese senza altro compenso che la concessione delle terre prosciugate." Così Claudio consigliato da Narciso prese a sé l'esecuzione dei lavori. La Naumachia (in latino naumachia, dal greco antico ναυμαχα/naumachìa, letteralmente 'combattimento navale')
I naumachiarii (combattenti nella naumachia) prima della battaglia salutavano l'imperatore con una frase divenuta famosa: Morituri te salutant.
Il ritorno del lago... Dopo qualche tempo infatti, l'incuria e la scarsa manutenzione del condotto restituirono al lago l'antico aspetto.
Diciotto secoli dopo, il progetto venne ripreso e ampliato con l'obiettivo di prosciugare il lago che, con i suoi 150 chilometri quadrati, era il terzo per superficie in Italia. Questa storia, a breve, sarà trattata a parte | ||||
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I Marsi [ torna all'indice ] | [ chiudi questa sezione ] |
Roma nei secoli V e IV prima di Cristo, dopo circa 150 anni di lotte - ora ricorrendo alle armi ora stipulando trattati di pace - aveva esteso i suoi domini su tutti i popoli latini, che possiamo considerare circoscritta entro i primitivi confini del Lazio. La politica adottata dai Romani in questa espansione era improntata alla romanizzazione delle terre e delle città sulle quali estendevano i loro domini. Essa consisteva nel lasciare alle terre sottomesse piena autonomia, considerando quelle popolazioni più come soci che come sottomessi. Con questo atteggiamento il Senato e il Popolo Romano non solo non opprimevano l'autonomia degli altri, ma davano la netta impressione di rispettarla e di garantirla. Le condizioni, possiamo dire di contropartita, richieste ai sottomessi si riducevano al divieto di stipulare trattati ed alleanze fra di loro e di stabilire qualsiasi altro rapporto con altri popoli. Inoltre dovevano contribuire con uomini e materiali al potenziamento dell'esercito di Roma. In sostanza, oggi diremmo che la politica estera e militare era riservata al Senato e al Popolo Romano, la politica interna era autonoma. Garantiva, infine, il rispetto di questi patti la presenza di presidi e di fortezze, che i Romani stabilivano in ogni città e luogo strategico dei popoli sottomessi. Dopo il 350 a.C. Roma era una vera potenza militare e politica, naturalmente portata ad espandersi e ad essere contrastata. Difatti, venne subito a contatto con due dei popoli più forti, che le intralciarono il cammino: a Nord gli Etruschi e a Est i Sanniti. Con gli Etruschi c'erano già stati degli scontri e, ormai, la raffinata civiltà di quell'antichissimo popolo si trovava nel periodo della decadenza: tuttavia, opponeva ai Romani ancora una valida resistenza. Molto più dura e più lunga fu la lotta con i Sanniti, che si protrasse ancora per 50 anni, fino al 290 a.C.. Durante questa guerra i popoli Marsi, di origine indoeuropea, con caratteri prevalentemente sabini, dapprima furono alleati dei Sanniti, e, trovandosi essi a confine tra il Sannio e il territorio dei Latini già conquistato dai Romani, dovettero subire il primo urto della guerra fra le due grandi potenze di allora. I Marsi si difesero in modo strenuo e già da allora si acquistarono la fama di guerrieri forti e coraggiosi, come in seguito li descriverà e li tramanderà concorde tutta la letteratura latina. I Marsi avevano nel loro territorio città e fortezze ben munite, fra le quali Marruvio (San Benedetto), Angizia (Luco dei Marsi), Pago di Venere, Cerfegna (Collarmele), Pliestilia (Pescina?), Fresilia (Pescasseroli?), Opi . Milionia, come abbiamo detto, sorgeva nei luoghi attualmente denominati Casei, Rivoli e Colle Cavallo, ed era, dal punto di vista strategico, una fortezza di capitale importanza per i Marsi e per gli alleati Sanniti : infatti, essa, per essere posta sui monti circostanti le rive dei lago Fucino dal lato Sud - Est, era un passaggio obbligato per accedere alle località settentrionali dei Sannio e poteva agevolmente contrastare i valichi di Forca Caruso e Carrito - Cocullo, uniche vie accessibili per raggiungere da Roma i Peligni ed i Subequani. Iniziate, pertanto, le ostilità tra Roma e i Sanniti, i Marsi furono attaccati subito, e furono sconfitti. Per cui fu stipulata una pace tra Roma e i Marsi. Ma le vicende di questa guerra, di capitale importanza per Roma, furono per molti anni incerte ed ingarbugliate. Effimeri patti di alleanza e di amicizia, tradimenti, imboscate, guerriglie: tutti gli eventi di una guerra di supremazia li ritroviamo nel lungo conflitto fra Roma e il Sannio. Nel 304 a.C. di nuovo ci incontriamo con i Marsi alleati con i Sanniti. Ma i Romani in quell'anno ebbero ancora vittorie strepitose, delle quali fu decisiva quella di Boiano nel cuore stesso dei Sannio (Molise). Ci fu un'ennesima pace fra i Romani e i Sanniti. Anche gli altri popoli italici accettarono le condizioni di pace, in verità molto moderate, dettate da Roma. In quell'occasione sulla sponda settentrionale dei lago di Fucino fu costruita ALBA, con un presidio di 6.000 uomini, specie di trincea contro i bellicosi Marsi. Quindi furono fondate Turano [Turania] e Carseoli. Nel frattempo i Romani prolungarono la via Valeria fino ad Alba e a Cerfegna (Collarmele). I Marsi divennero famosi anche per aver dato il via alla Guerra Sociale, che portò il paese alla lotta tra Mario e Silla. I Marsi erano famosi per le loro arti lottatorie: quasi tutti i Marsi erano gladiatori presso i Romani. Si raccontava che quattro soldati romani equivalevano ad uno marsicano. [fonte] | |
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Il castello Orsini-Colonna [ torna all'indice ] | [ chiudi questa sezione ] |
Le fasi costruttive del Castello Orsini-Colonna ad Avezzano furono principalmente tre; il primitivo nucleo, rappresentato da una torre di vedetta a pianta quadrata, fu realizzato nel sec. XII (1181-1182) ad opera di Gentile Di Palearia, conte di Manoppello e signore del contado di Avezzano, successivamente attorno alla torre originaria fu impostato un recinto difensivo. [fonte] | |
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Il Castrum Avezzani [ torna all'indice ] | [ chiudi questa sezione ] |
La contea albense diventa Corte baronale Morta Filippa Berardi di Celano, contessa d'Albe dal 1270 e figlia del conte Ruggero I di Celano, la contea albense passò alla Regia Camera ed alla Casa Reale diventando sede della Corte baronale albense; successivamente, nel 1343, per testamento di Roberto d'Angiò, fu affidata a Maria di Durazzo. Probabilmente sotto questa contessa Avezzano divenne un vero e proprio abitato accentrato e circondato da una regolare ed ampliata recinzione muraria dotata di torrette rompitratta e tre porte (“Porta S. Francesco, “Porta S. Bartolomeo” e “Porta S. Felice” detta poi, nel secolo XVI, “S. Rocco”). Di questa evoluzione urbanistica del castrum Avezzani abbiamo una chiara testimonianza per l'anno 1333, negli Annali del Monaldeschi, manoscritto trecentesco conservato nel ‘700 nella “Biblioteca Moralda” in Roma. Sappiamo, infatti, che: « Ianni Caffariello fe costione, & uccise Ianni delli Iudice e se ne fuio allo Regno, e no piezzo stava ad'Albe dalli Capocci, e no piezzo stava a Lugo dalli Vangelisti, & una buona parte fecero certe case a no loco, e si chiamavo Avezano, che chisto ce lo pigliro li più ricchi e nobeli …» (Corsignani 1738, Ia, 379-380). È evidente l'opera del Caffarielo con i suoi amici Capocci di Albe e gli Evangelisti di Luco nella costruzione di case nobili nel nuovo castrum avezzanese: infatti, le acquistarono ricchi e nobili avezzanesi. | |
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Il terremoto di Avezzano - 13 gennaio 1915 [ torna all'indice ] | [ chiudi questa sezione ] |
Il terremoto di Avezzano - 13 gennaio 1915 - ore 7.55 Quando gli organi di governo e della stampa cominciano a divulgare le prime notizie relative al terremoto, si diffonde la sensazione dell'occorrenza di un evento drammatico, non ancora precisamente caratterizzato (La Nazione, 1915 e).
Soltanto alle 13 parte da Roma Termini, alla volta di Avezzano, un treno straordinario che non reca soccorsi, bensì solo funzionari statali con compiti di sopralluogo. Sulla via per Avezzano questo convoglio ospiterà due squadre di soccorso di volontari dei comuni di Arsoli e Carsoli che presumibilmente saranno tra le prime a giungere ad Avezzano, ben oltre 12 ore dopo il verificarsi del terremoto (Il Messaggero, 1915 a; La Nazione, 1915b).Alle 19 da l'Aquila viene organizzata finalmente la partenza di un primo treno di militari alla volta di Avezzano (La Tribuna, 1915 f). Ma bisognerà attendere sino alle 23.30 perchè dalla Capitale parta un convoglio con più di 600 militari (Il Giornale d'Italia, 1915 b) e solo dopo che alle 21.10 era giunto alla Stazione Termini un treno carico di feriti dalle zone più danneggiate (es. 11 Popolo d'Italia, 1915 b). Alle 13.55, con treno speciale, da Roma giunge ad Avezzano il Re, insieme al Generale Carlo Guicciardi che assume il comando della Zona militare di Avezzano (ad es. JAVICOLI, 1915; La Nazione, 1915e; Il Messaggero, 1915 c; L' Osservatore Romano, 1915 a). Questi dati fanno ritenere probabile che, per almeno 36 ore (in alcuni casi anche 48 ore), la situazione relativa ai soccorsi nell'area fucense e di Avezzano, rapidamente divenuto il centro organizzativo, rimase su un piano del tutto insufficiente, sebbene il quadro dell'entità del disastro fosse ormai chiaro. Ad ogni settore vengono assegnati un adeguato quantitativo di materiale di soccorso e di razioni di viveri per la popolazione. In data odierna la sussistenza distribuisce 18.000 razioni di viveri, composte da 700 gr di pane, 150 di riso o pasta e 30 di sale, mentre razioni di latte condensato, carne fresca, caffè e zucchero vengono riservate agli ammalati. In serata, con l'arrivo di ulteriori truppe, il contingente d'intervento raggiunge le 9.100 unità (SALADINO, 1915; BARATTA, 1977).
mercoledi 20 gennaio 1915 | |
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L'età antica [ torna all'indice ] | [ chiudi questa sezione ] |
L'ager Albenses e il fundus Avidianus In età augustea il territorio di Avezzano si troverà inserito nella IV regione, Sabina et Samnium, ed i suoi abitanti, già iscritti alla tribù Fabia, diventeranno tutti cittadini romani del nuovo municipium albense (Cicerone, Filippiche, III, 15, 9). I vicini Marsi ex socii di Roma, ormai liberi cittadini romani, iscritti alla tribù Sergia e parte della Regio IV come gli Albensi, si dividono in tre municipi (Marruvium – S. Benedetto dei Marsi, Anxa – Luco dei Marsi e Antinum – Civita d'Antino), pur mantenendo la titolatura etnica di Marsi. I nuovi municipia sono ora retti da quattro magistrati, i quattuorviri, che si dividevano in iure dicundo, amministratori politico-giudiziari, ed aediles legati ai problemi edili (strade, edifici, mercati, ecc.). Ogni cinque anni i quattuorviri superiori effettuavano anche il censimento, assumendo il titolo di quinquennales. | |
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L'età medievale - parte I [ torna all'indice ] | [ chiudi questa sezione ] |
Longobardi, Franchi e Conti dei Marsi L'inizio del medioevo è indubbiamente segnato per la Marsica dall'arrivo dei Longobardi nella provincia Valeria nel 571-574 con la definitiva conquista nel 591 ad opera di Ariulfo, secondo Duca di Spoleto. La conquista non fu uniforme e si prolungò per circa 20 anni « in un arco cronologico di una certa estensione, ma con conseguenze comunque devastanti sulla grande maggioranza dei centri urbani e degli abitati rurali ancora esistenti, sottoposti a saccheggi e distruzioni. » (Staffa 1993, 23). Sebbene esistesse un Ducato longobardo a Spoleto, il potere del suo duca non era dei più stabili sul territorio visto l'eccessivo dinamismo delle famiglie guerriere longobarde (fare) dell'Italia centrale che autonomamente decidevano le direttrici di conquista ed i loro insediamenti nelle aree conquistate. | |
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L'età medievale - parte II [ torna all'indice ] | [ chiudi questa sezione ] |
La villa Avezzani della Contea di Albe Con l'inoltrato XII secolo, con l'arrivo dei Normanni, la Marsica si troverà inserita sui confini settentrionali del Regno normanno di Sicilia e vedrà il definitivo consolidarsi del sistema insediamentale feudale basato sui castella posti sulle alture e villae, casalia ed ecclesiae ad economia agricola poste a fondovalle. Dopo i primi tentativi nella seconda metà dell'XI secolo, nel 1143 i Normanni con i due figli di Ruggero II d'Altavilla, Ruggero ed Anfuso, provenienti dalla Valle Roveto, riescono a raggiungere il bacino fucense ed ottenere la resa definitiva di Berardo e Rainaldo, figli del Conte dei Marsi Crescenzio, gli ultimi ad avere il titolo di « comites Marsorum » (Ann. Ceccanenses, 283). Il comitato dei Marsi, ora detto geograficamente « De Valle Marsi » inserito nel Principatus Capuae, fu diviso da Ruggero II in due contee e diverse consorterie familiari: la Contea d'Albe, data a Berardo V; quella di Celano assegnata a Rainaldo; il territorio Carseolano, parte del tagliacozzano, Valle di Nerfa e Palentino dato agli eredi d'Oderisio II; parte della Valle di Nerfa ed altri feudi fucensi meridionali affidati a Simeone e Crescenzio di Capistrello (Jamison 1972, 214-225). | |
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La Città [ torna all'indice ] | [ chiudi questa sezione ] |
Secondo alcuni studiosi, Avezzano sarebbe sorta, come vero e proprio centro abitato, solo dopo il 1333. Prima di questa data, sarebbe stata un semplice «loco» sulle rive del lago Fucino (Monaldeschi). Secondo altri, Avezzano sarebbe piú antica, essendosi dimostrata l'esistenza di una chiesa (quella di S. Salvatore) già nell'866. Ad ogni modo, il nome è di chiara provenienza latina. Rifiutata, ormai, dagli studiosi la derivazione da Ave Jane (quasi una forma di saluto al dio Giano, il cui tempio si diceva esistente nel territorio), stanno prevalendo altre due ipotesi: la prima, da fundus Avidianus (cioè, terreno di Avidio) (C.Letta, W.Cianciusi, e altri); la seconda, da Ad Vettianum (presso il terreno dei Vezzi), che però avrebbe dovuto dare Avvezziano o Avvezzano, e non certamente Avezzano. Dal '600 a tutto il '700, Avezzano vede il succedersi di Spagnoli, Austriaci e Borboni alla guida del Regno di Napoli; nel 1799 si salva casualmente dall'invasione francese (che coinvolge, invece, il resto dell'Abruzzo); nel 1806 subisce un saccheggio ad opera di bande filo-borboniche e perde alcuni dei suoi giovani in uno scontro a fuoco avvenuto sotto le mura. Nel medesimo anno, in seguito alle «leggi eversive della feudalitá», emanate da Giuseppe Bonaparte, ha termine il lungo dominio dei Colonna. | |
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La classe egemone marsicana dell'anno 1894 [ torna all'indice ] | [ chiudi questa sezione ] |
Nomi illustri nei posti di potereFulvio D'Amore ricercatore e saggista - 20 novembre 2018 I dati raccolti dall'Annuario d'Italia del 1894, offrono un panorama sociale della Marsica inconsueto, colto in una fase critica nazionale, in cui si evidenziavano i complessi problemi dell'epoca. D'altronde, le Discussioni fatte alla Camera dei Deputati ne riflettono perfettamente il clima. Lo stesso re Umberto I di Savoia, da Palazzo Montecitorio, inaugurando la seduta del 3 dicembre, così esprimeva le sue preoccupazioni: «Signori Senatori! Signori Deputati! L'anno che tramonta surse incerto e diffidente di sé». Nella stessa seduta, Sidney Sonnino (ministro del Tesoro), non lasciò larghi spazi all'ottimismo durante l'esposizione finanziaria: «Oggi la finanza nostra è un'ammalata in convalescenza, scampata, mediante una cura energica, da una crisi gravissima» (1). Qualche anno dopo, Paolo Boselli, ministro delle Finanze nel quarto governo Crispi, registrava anche lui un quadro a tinte fosche caratterizzato da: arretratezza dell'agricoltura, stentato decollo dell'industria e scarso sviluppo delle attività commerciali. La delicata situazione socio-economica dell'Italietta, dopo la disfatta dell'esercito italiano avvenuta nella pianura di Adua (sconfitta del generale Oreste Baratieri) precipitò, inducendo il capo dello Stato alle dimissioni. In questo scenario, la nota azione imprenditoriale espressa dalla famiglia Torlonia nel “latifondo” del Fucino (il principe Giovanni, deputato e poi senatore, sedeva a Sinistra con i costituzionalisti), a dispetto delle precarie condizioni generali, mobilitava e metteva sempre più in campo grandi capitali, raggiungendo progressi notevoli, evidenziati più tardi nella «Mostra dell'Agricoltura» del 1903, svoltasi all'Aquila. Tra l'altro, occorre precisare che nel documento della «Statistica Industriale» del 1905, il moderno zuccherificio dei Torlonia in continua ascesa, era già stato dotato di potenti macchinari: sette caldaie a vapore (1850 HP) e otto motori a vapore (520 HP) con l'occupazione di 260 operai. Il dato andrà confrontato con il Censimento del 1927, dove si evince che i lavoratori aumentarono fino alla cifra di 1.048 (2). Tuttavia, comportamenti e scelte dei soggetti coinvolti, riflettevano su tutta la zona interessata un forte impatto sociale. Infatti, seppur si evidenziassero i progressi di mercato con Roma, nacquero anche molti contrasti tra fazioni politiche, con orientamenti di classi egemoni e ceti rurali verso posizioni estreme, in una situazione rappresentata da aspre lotte interne. Il Fucino, naturalmente, giocava un ruolo fondamentale nelle secolari vicende che videro sempre più svilupparsi nuovi interessi e attese, in quadro ambientale dove la maggior parte della popolazione conduceva un'esistenza di sofferenze e privazioni, a differenza dei ricchi proprietari terrieri appartenenti alle famiglie storiche locali. D'altronde, la storia della Marsica si evidenziò, durante i secoli trascorsi, dal lento decadimento delle antiche sedi comitali (Celano, Pescina, Tagliacozzo), mentre la città di Avezzano raggiunse già sotto il dominio borbonico e poi con l'Unità un certo progresso, dovuto alla sua centralità e, soprattutto, alla forte azione industriale dei Torlonia. Ben lo ammise Nicola Marcone (schierato con la Sinistra storica di Crispi). Dopo la sua attenta visita nel 1886 al capoluogo sede di sottoprefettura, confermò le dinamiche economiche del centro abitato, scrivendo: «Vastissimo palazzo del Principe, con annessa Foresteria, i superbi granai, riboccanti de' nuovi prodotti del lago, la cattedrale splendente di maestà nuova [...] I mercati di un tempo si sono trasformati in Fiere; il traffico commerciale è intensissimo [...] S'incrociano i carri di grano, di fagioli, di bellissime e ricercate patate, di fresche verdure e, soprattutto, di mele e pere stupende, che esportano nei centri di consumo e specialmente a Roma». Certamente il suo resoconto fu caratterizzato da forti descrizioni apologetiche, che evitava magari di raccontare i primi seri contrastati in atto tra braccianti e affittuari. Infatti, seppur già cominciasse a emergere uno scontro tra possidenza agraria tradizionale e grande capitale, Nicola Marcone mise anche in luce risultati di tutto rispetto, inseriti, però, nella logica dei profitti: «Era infatti la Società Italo-Tedesca a contrattare, su basi spesso vessatorie ma di sicura impronta industriale, quantitativi e modalità di consegna della barbabietola». Tuttavia, nel groviglio di problematiche spesso inestricabili: «Le famiglie prescelte dai Torlonia, oltre a poter offrire le necessarie garanzie di solvibilità, erano quelle maggiormente influenti, di solito detentrici del potere quanto meno a livello locale, di cui essi volevano evidentemente assicurarsi il favore» (3). Nel 1894, dunque, il Circondario di Avezzano comprendeva 8 mandamenti (35 comuni), con una superficie di 1.070 chilometri quadrati e con una popolazione di 111.737. Il Mandamento di Avezzano, quarto collegio uninominale, era formato da 5 comuni (23.574 abitanti). L'Annuario d'Italia riporta altre notizie interessanti: «Avezzano (ab.7272) trovasi in un'estesa pianura, a settentrione del già Lago Fucino ora prosciugato, vicino al Monte Velino». I prodotti del territorio, in parte piano e in porzione montuoso, erano prevalentemente: cereali, vini e canape. Gli abitanti erano per la maggior parte contadini e braccianti: «Vi sono, si sottintende, anche tutte le arti e i mestieri indispensabili in un centro abitato di qualche importanza». Si praticavano cinque Fiere: il venerdì dopo Pasqua; il 29 giugno; il 1° settembre, il 4 ottobre e il 28 dicembre; mentre il mercato era settimanale. Con riferimento alla classe sociale che dirigeva l'amministrazione municipale, emergono i nomi di benestanti e professionisti locali (avvocati, dottori e notai), provenienti da antichi casati importanti; mentre, gli uffici governativi, di solito erano occupati da forestieri di un certo rango. Nella città, sede di Sotto Prefettura sin dal 1861, aveva il suo ufficio, il funzionario governativo «cavaliere-dottore» Luigi Carracicco, affiancato dal segretario, dottor Gennaro Gentile, il «computista» Gian Loreto Lolli e «l'ufficiale d'ordine» Gian Battista Scacchi. L'ufficio di «Pubblica Sicurezza» era comandato dal vice ispettore Luigi De Robertis, affiancato dal «delegato» Tito Di Fabio. La caserma dei «reali carabinieri», invece, era retta dal tenente Paolo Viti. In quegli anni, il vecchio sindaco Emanuele Lolli presiedeva l'amministrazione comunale. Esisteva poi un «Magazzino delle Privative»; un registro del demanio e l'agenzia delle imposte, diretta dall'agente Luigi Borella. Il tribunale civile e penale aveva come presidente «Gigli cav.Teodorico», con i giudici: Oreste Costanzi, Francesco Fattorini, Filippo Giovanetti e Demetrio Beruto. Il cancelliere Giulio Antonelli era affiancato dai vice: Francesco Colelli, Giuseppe Moreschi e Giovan Leonardo Ferrari. Il «procuratore del re», si chiamava Alberto Avellino. Foltissimo si rivelava il collegio degli avvocati, il cui «Consiglio dell'Ordine» era formato da: Vincenzo Cerri (presidente); Francesco Mattei (segretario); Luigi Gentile (consigliere); Antonio Lolli (cassiere). Nel collegio dei procuratori esisteva un consiglio di disciplina, presieduto da Vincenzo Cerri, dal segretario Antonio Lolli, dal cassiere Serafino D'Ovidio e dal consigliere Luigi Gentile. Anche la composizione del «Consiglio Notarile Distrettuale» evidenziava i nomi di personalità importanti dell'epoca, come: Giovanni D'Amico (presidente); Alessandro Venditti (segretario); Vincenzo Fallace (tesoriere). Membri ordinari erano: Raffaele Cherubini, Alfonso Del Vecchio e Alessandro Venditti. Membri supplenti: Vincenzo Angelitti, Carlo Bizzarri e Quirino Silvestri. L'archivio notarile distrettuale aveva la sua grande importanza, diretto dal «Conservatore e Tesoriere» Carlo Leonelli e dall'archivista Andrea Resta. I notai riportati nell'annuario, risultavano Giovanni D'Amico e Geremia Saturnini. A capo del «Subeconomato dei Benefici Vacanti», si trovava l'avvocato Gaetano Odorisio; mentre, l'ispettore del distretto forestale era Vincenzo Cialente. Il «Comizio Agrario» era presieduto dal cavalier Lorenzo Botti (lo ritroveremo più tardi vincitore alle elezioni del consiglio provinciale di Avezzano); vicepresidente, l'ingegnere Biagio Orlandi e il segretario Salvatore De Filippis. Il «Capo Ufficio Postale» era Gaetano Piccinelli; il «Capo Ufficio del Telegrafo» era una donna: Candida Mussolon. L'ispettore scolastico si chiamava Evasio Barberis e il «Delegato di Mandamento» il dottor Ferdinando Ruggeri. Il direttore del «Ginnasio Pareggiato» era Giuseppe Petroni. La direttrice della «Scuola Magistrale Rurale» si chiamava Giuditta Contesini; mentre «l'Insegnate Aggiunta» era Luigia Damiani; le maestre del corso di preparazione erano: Anna Folicaldi e Rosina Rosati. Invece, la «Maestra della Scuola Esemplare» si chiamava Plinia Benvenuti. Giuditta Cortesini era la direttrice della «Scuola Normale Femminile». Alla direzione degli «Scavi e Monumenti» fu incaricato l'avvocato Francesco Lolli. Dal lungo resoconto di dati, si apprende anche il nome degli albergatori di Avezzano e quelli degli agenti dell'assicurazione «Riunione Adriatica di Sicurtà»; altresì, si rileva l'esistenza della «Banca Cooperativa Popolare Marsicana». Non mancano altri nomi di titolari di «negozi di bestiame», di caffettieri, calzature, cappelli, cartolai, cereali, chincaglieri, droghieri, ebanisti, ferramenta, legatori di libri, «librai liquoristi», mediatori in vini e cereali, esercizio di mulini, orefici, panettieri, della fabbrica di «paste alimentari», del negozio di pellami, quelli dei pizzicagnoli, ramai e sarti, quello del negozio di tessuti, tipografi e negozio di vini. La professione di avvocato era praticata da: Giovanni Cerri, Vincenzo Cerri (spesso difenderà il comune di Avezzano nelle cause contro l'amministrazione Torlonia), Giuseppe Colacicchi, Giovanni Corbi, Bernardino Corbi, Antonio Di Carlo, Luigi Gentile, Bartolomeo Giffi, Carlo Leonelli, Francesco Lolli, Antonio Lolli, Luigi Lombardi, Francesco Mattei, Gaetano Odorisio, Paolo Resta, Raffaele Iacobacci, Pasquale Schiavone ed Ernesto Zugaro. In testa all'elenco dei farmacisti spicca il nome di Fedele De Bernardinis, seguito da quello di Emilio Ferrini, Ferdinando Fiori e Luigi Rainaldi. Anche i nominativi dei medici-chirurghi, mostrano l'appartenenza dei dottori al ceto borghese: Antonio Cerri, Paride Ferrini, Raffaele Nardelli (futuro sindaco di Avezzano), Ferdinando Ruggeri, Edoardo Sferra. I periti agronomi più importanti erano: Francesco Amorosi, Bartolomeo Corbi, Raffaele Fiori, Giulio Gallese, Biagio Orlandi e Gennaro Amorosi. I veterinari: Giuliano Alviani e Francesco Rocchetti. Al collegio elettorale di Avezzano (diocesi di Pescina), apparteneva il comune di Capistrello (sindaco Carlo Bizzarri), con 3.746 abitanti; Magliano dei Marsi (sindaco avvocato Giuseppe De Clemente), con abitanti 4.423; Massa d'Albe (sindaco Francesco Blasetti), con abitanti 4.414; Scurcola (sindaco Francesco Ansini), con abitanti 3.130. Di minor importanza, ma ugualmente utile, il mandamento di Carsoli, con ufficio di registro a Tagliacozzo e con sede di «Pretura» che comprendeva anche il paese di Pereto. Poi seguiva il mandamento di Celano, dove esisteva persino una stazione di «vetture postali per Aquila e Avezzano». Visto l'arretratezza dei tempi, dovrà tenersi conto (come evidenzia l'Annuario), che per giungere al capoluogo di provincia s'impiegavano «ore di percorso 5,55»; invece per giungere ad Avezzano, si trascorrevano: «ore di percorso 1». Facevano parte del mandamento i paesi di: Aielli (commissariato), abitanti 2.300; Ovindoli (sindaco Michele D'Angelo), abitanti 1.853. Il mandamento di Civitella Roveto, comprendeva i centri di: Balsorano, Canistro, Civita d'Antino, Morino e S.Vincenzo Valle Roveto. Il mandamento di Gioia dei Marsi (sede di Pretura), comprendeva i paesi di: Lecce nei Marsi, Ortucchio e Pescasseroli. Il mandamento di Pescina con l'«Agenzia delle Imposte, Ufficio del Registro, Pretura, Ginnasio, Convitto» e sede vescovile (retta da monsignore Enrico De Dominicis), comprendeva i comuni di Bisegna, Cerchio, Cocullo, Collarmele e Ortona dei Marsi. Il mandamento di Tagliacozzo, includeva: Cappadocia, Castellafiume e Sante Marie. Infine, nel mandamento di Trasacco, sede di Pretura, furono inseriti i municipi di: Collelongo, Luco dei Marsi e Villavallelonga. NOTE
Annuario d'Italia, Anno IX, Ediz.1894. Calendario Generale del Regno, Pubblicazione Ufficiale già edita a cura del Ministero dell'Interno e continuata dalla Società dell'Annuario Generale d'Italia, Anno XXXII, Parte seconda, Stab. Bontempelli, Roma, pp.1625-1630. fonte: www.terremarsicane.it | |
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Le vittime del terremoto del 1915 [ torna all'indice ] | [ chiudi questa sezione ] | ||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Il 13 gennaio 1915 accadde la più grande catastrofe mai avvenuta nella Marsica, una delle più gravi nella storia dell'intera Italia. Il terremoto di Avezzano, di vastissima scala, scosse l'intero territorio marsicano provocando la sua distruzione e migliaia di morti. La mattina del 13 gennaio 1915, alle ore 7,48, (dal Telegramma inviato dal pro-Sindaco di Tagliacozzo al Ministero dell'Interno) ci fu la prima violentissima scossa, seguita da varie scosse di assestamento.
La maggior parte dei feriti venne trasferita in Ospedali Romani; la "Casa Famiglia Regina Elena" che accoglieva gli orfani del terremoto, nei giorni seguenti, venne subissata di domande da parte di genitori che, non riuscivano a rintracciare i propri figli. | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
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Onoreficenze [ torna all'indice ] | [ chiudi questa sezione ] |
Titolo di città «Decreto del Presidente della Repubblica» — 21 giugno 1994
Medaglia d'argento al merito civile «Sotto l'infuriare dei bombardamenti e delle rappresaglie nemiche, che causavano gravissime perdite umane e materiali, conserva intatta la sua fede nella libertà e nei destini della Patria.» — 31 dicembre 1961 | |
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Orsini e Colonna [ torna all'indice ] | [ chiudi questa sezione ] |
Margherita regina d'Ungheria diviene nuova Contessa di Albe L'inizio del XV secolo vede nuovamente riaccendersi i conflitti fra gli abitanti di Avezzano e Luco per il possesso della terra di Penna. L'Universitàs di Avezzano tornò alla carica chiedendo a Margherita regina d'Ungheria, nuova Contessa di Albe, che il territorio di Penna fosse assegnato ad Avezzano ed escluso ai Luchesi. Margherita con un documento dato in Salerno il 1 giugno del 1404, assegnò la proprietà del « Territorio Pennae » ad Avezzano, ma lasciò gli usi civici (legnare, pascolare ed utilizzare l'acqua per gli animali) ai Luchesi su tutto il territorio fino al monte “Tarentino” (Colle degli Stabbi): « & homines dictae Terrae nostre Luci habent, & habere debent ius sumenti pascua, & aquas cum eorum animalibus in dicto territorio Terrae Pennae, & similitèr habere commoditates eiusdem pascua sumendi, & ligna etiam incidendi im Monte Tarentino libere » (Phoebonius 1668, III, 135-136). Nonostante questa concessione, i problemi per la definizione sui confini si trascinò fino all'età contemporanea. La Collegiata di S. Maria di Luco rimase infatti proprietaria di gran parte del territorio dell'ex Penna, dai resti di Anxa-Angitia fino all'Incile. Le conferme alla stessa chiesa luchese si estesero per tutta l'età moderna fino al risolutivo Regio Decreto del 1747 e, in età contemporanea, alle decisioni prese durante il regno di Giacchino Murat. Il 19 dicembre del 1811 a Chieti, ad opera del « Cavaliere Giuseppe De Thomasis Relatore al Consiglio di Stato e Commissario del Re per la Divisione de' Demani » fu redatto l'accordo fra il « Comune di Luco della Provincia dell'Aquila, e il Clero della Madonna delle Grazie dell'istesso Comune » per la cessione di gran parte della proprietà ecclesiastica al Demanio di Stato e quindi all'Amministrazione Comunale in base alle leggi del 2 agosto 1806, del 17 gennaio del 1810 e Reali Istruzioni del 10 marzo dello stesso anno. Alla chiesa rimase il territorio dal Vallone di S. Vincenzo fino ai confini storici con Avezzano e Capistrello. Alle proteste del Comune di Avezzano, che ancora accampava diritti ed usi civici sul territorio dell'ex Penna, il de Thomasis viste le prove presentate dei rappresentanti di Luco, dalla donazione del conte Berardo del 1074 al Regio Decreto del 1747, chiuse la questione con la dichiarazione che la pretesa avezzanese era sprovvista di prove e che « non esistono gli usi dedotti dal Comune di Avezzano » (ASA, 4). | |
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Simboli [ torna all'indice ] | [ chiudi questa sezione ] |
Lo stemma in uso è il decimo nella storia di Avezzano, è stato riconosciuto nel 1994 dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Stemma: "d'azzurro, al San Bartolomeo di carnagione, in maestà, aureolato d'oro, capelluto e barbuto di nero, mirante verso l'alto, i fianchi e parte delle gambe drappeggiati di rosso, il braccio destro alzato, la mano destra impugnante il coltello del martirio, posto in banda, con la punta all'insù, d'argento, la spalla sinistra coperta dalla pelle del Santo, al naturale, pendente fino al fianco sinistro, attraversante il drappeggio, terminante con le mani e con il viso, rovesciati, il Santo sostenuto dalla pianura diminuita, d'oro. Ornamenti esteriori da città. Gonfalone: "drappo di giallo, riccamente ornato di ricami d'oro e caricato dallo stemma sopra descritto con la iscrizione centrata in oro, recante la denominazione della città, le parti in metallo ed i cordoni saranno dorati. L'asta verticale sarà ricoperta di velluto giallo con bullette dorate poste a spirale. Nella freccia sarà rappresentato lo stemma della città e sul gambo inciso il nome. Cravatta con nastri ricolorati dai colori nazionali frangiati d'oro". | |
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Storia del nome di Avezzano [ torna all'indice ] | [ chiudi questa sezione ] |
Riguardo agli esosi problemi legati alle origini del suo nome, credo che sia ora di chiarire definitivamente il problema e va dato atto all'amico Cesare Letta di aver dato la risposta decisiva ai numerosi, inconcludenti e fantasmagorici tentativi della storiografia locale, attuati dal Seicento al termine del Novecento. Si deve al prelato e famoso storico Muzio Febonio, nato ad Avezzano nel 1597, il primo tentativo culminato nell'invenzione del fantasioso tempio di Giano esistente nella località “Pantano”, attuale Piazza S. Bartolomeo, divinità dal cui saluto Ave Iane sarebbe derivato Aveanum e successivamente “Avezzano”: « Erat hoc Pantanum, in quo Iano (cui prisci mores Deitatem tribuerant) non vulgare templum, & religione, & vetustate celeberrimum insacerbat; eò venerabilius, quò gens ipsa ab illo originem traere gloriabat quem Noenum fuisse supra retulimus; eumque ex Sacrorum notizia, cultuq; Principem in sacrificando esse voluerunt, Ianunque ab eundo dictum, ex cuius salutatione sumpra occasione, Ave Iane, Aveanum nuncuparunt, & si vulgato modo pronuncietur, scribaturque Avezzanum, vera tamen vetusta nuncupativo illa est.»: trad. Ital. = « tale luogo era il Pantano, dove sorgeva un tempio consacrato al dio Giano, non spregevole per forma, e assai celebre per santità e antichità; e aggiungo che tanto più era venerabile, perché la stessa popolazione si vantava di trarre origine da colui, tale Noemo, da cui venne dato il nome alla città. Dalle notizie che si possono ricavare da tale culto, pare che la suddetta gens eleggesse Noemo principe del sacrificio, e che nel salutarlo lo chiamassero Giano, dal fatto che ne frequentava il tempio, e che da tale modo di salutare, Ave Iane, traessero l'appellativo di Aveanum, che nella pronuncia volgare e nella scrittura finì col trasformarsi in Avezzanum: questa sarebbe la ragione dell'antica denominazione. » (Phoebonius 1678, III, 144). L'invenzione feboniana ebbe successo negli autori successivi, dal Corsignani (1738, Ia, 376-377) al Di Pietro (1869, I, 173-174), al Brogi (1900, 270) ad altri numerosi autori contemporanei che però si limitarono a riportarla come supposizione. A tale prima ipotesi se ne affiancarono altre: da Ad Vettianum, quindi da un possibile fondo agricolo dei Vettii, fra l'altro non documentato nel territorio avezzanese, ma vicino il Cimitero di Scanzano di Tagliacozzo (“Not.Sc.” 1887, 459); da Abetianum, luogo ricco di abeti; da Avicianum, luogo vicino alle Vicenne; da Avicanum, vicino al villaggio di Vico; da Avellanus, dal vicino Monte Velino. Ipotesi mirabolanti e senza seria analisi scientifica che fecero storcere il naso al famoso Fabretti che già sul finire del ‘600 le definì « Plus de fabulis quam de istoria » (Fabretti 1683, 295), provocando le successive ire dell'Orlandi (1967, 34). A queste prime posizioni, come abbiamo visto fantasiose e mirabolanti, si cercò di affiancare l'origine dei tanti villaggi che costituirono il castrum Avezzani medievale del '300, come risultato dei villaggi creati dai superstiti dei lavori romani dell'Emissario romano dell'Incile. Tesi cara al Febonio con la nascita di un'irreale « Pinnam Imperatoris » e la falsa creazione di una medievale « Universitas Pennae » intorno all'Emissario, cui si legarono gli autori successivi fino all'Orlandi (1967, 14-32) ed il Pagani (1968, 49-68). Lo stesso Orlandi, ripreso poi dal Pagani, cercò di collegare le origini di Avezzano e della Penna medievale con il vecchio municipio marso di Anxa ed un fantasioso tempio di Giove Statore posizionato nell'area di S. Bartolomeo, attribuendo alla città marsa tutte le iscrizioni rinvenute ad Avezzano. Tutte supposizioni che non avevano, e non hanno, nessun fondamento scientifico, giacché il territorio di Alba Fucens conteneva appieno tutto il territorio di Avezzano fino all'Incile, come provato dai cippi miliari rinvenuti nell'area e la citazione della tribù Fabia nelle iscrizioni avezzanesi. Tribù romana, la Fabia, cui erano iscritti gli abitanti di Alba Fucens, mentre i Marsi erano inseriti nella Sergia insieme ad i vicini Peligni (Cicerone, Vatin., XV, 36; Letta 1972, 109-124). Riguardo all'ubicazione del municipio marso di Marsi(s) Anxa, esso non può essere cercato nel territorio albense; l'iscrizione trovata ad Antrosano (CIL IX, n. 3950) cita un magistrato di Alba Fucens che svolse le sue funzioni “anche” nel municipio dei Marsi Anxantini. Il Durante nel 1978 e successivamente il Letta ed il Prosdocimi, hanno definitivamente chiarito che negli Anxates dell'iscrizione di Antrosano e nei Marsi Anxatini… Lucenses della lista pliniana, relativa ai municipia marsi (Plinio, Nat.Hist., III, 106), bisogna riconoscere gli abitanti della città di Anxa localizzabile nell'area archeologica di Angitia di Luco dei Marsi (Durante 1978, 792; Letta 1988a, 206-207; Prosdocimi 1989, 533). Lo stesso può dirsi per Penna, un insediamento sparso citato solo a partire dalla seconda metà del '200, riconoscibile nel territorio posto fra l'Emissario romano dell'Incile e la città marsa di Anxa, area detta nell'altomedioevo « ad Formas » e dotata delle chiese di S. Padre nello stesso Emissario e S. Vincenzo presso l'inghiottitoio naturale della Petogna di Luco dei Marsi (ora “Salita di S. Vincenzo”). Nei documenti medievali si fa riferimento, a partire dal XIII secolo, della stessa città antica e del vecchio insediamento medievale di Luco col nome di Penna: vedi i toponimi ancora esistenti di “Monte Penna” e “Corno di Penna” nell'area archeologica citata (Grossi 1999a, 39, 45, 46). Anche l'irreale “ Pinnam Imperatoris ”, letta erroneamente dal Febonio nella bolla papale di Pasquale II del 1115, è in realtà riferibile ad una località di Vallepietra, posta sui confini della Diocesi dei Marsi nei Simbruini, e definita nei documenti altomedievali « Petram Imperatoris »; toponimo originato dall'esistenza nell'area di un cippo romano posto all'inizio dell'acquedotto neroniano di Monte Autore (Caraffa 1969, 5-6, 257-259; Grossi 1992, 43-44). Ma per mettere fine a questa vexata quaestio sul significato del nome di Avezzano, ci affidiamo all'amico Walter Cianciusi che, in un recente bel testo dedicato alla storia linguistica della Marsica, riporta le acute osservazioni del Letta: « Avezzano: Dopo l'abbandono della pretesa che il nome derivi da Ave Iane (!) (Feb.) per la supposta esistenza nella zona di un tempio a Giano e, in esso, di una statua cui il passante rivolgesse il saluto, s'è affermata l'opinione che il toponimo derivi da Ad (fundus, praedium) Vettianum, cioè « presso la tenuta, il podere dei Vezzi »: ipotesi accreditata dal fatto che la famiglia dei Vezzi ebbe nella Marsica « varie attestazioni letterarie » (Letta-D'Amato) ma che - nota C. Letta - darebbe “Avvezziano” o “Avvezzano”, con due v e con z sorda, mentre Avezzano si pronuncia con una z sonora. Ma De Giovanni e Giammarco derivano il toponimo da (fundus) Avedianus, da un pers. Avedius che non trovo attestato nella Epigrafia Letta-D'Amato, né finora altrove. « La spiegazione giusta è quella del toponimo prediale Avidianum (o fundus Avidianus) dal gentilizio Avidius, che darebbe regolarmente Avezzano, con una sola v e con la z sonora. [...] Il gentilizio Avidius è bene attestato ad Alba Fucens, ed addirittura nel sito stesso dell'odierna Avezzano » (C. Letta). Cfr. CIL, IX, 3933; una iscrizione pubblicata in « L'Antiquité Classique », XXIV, 1955, p. 67, n. 11 e soprattutto CIL, IX, 4024, menzionante due liberti della gens Avidia, « ritrovata proprio in Avezzano, per cui è ragionevole supporre che gli Avidii di Alba avessero delle proprietà nel sito della attuale Avezzano » (C. Letta). » (Cianciusi 1988, 96). Quindi il nome altomedievale di Avez(z)ano era il risultato della presenza in loco di un fundus Avidianus, una grande proprietà agricola con relativa villa romana appartenuta ad una delle famiglie più in vista nel municipio albense. Questo bisogno di “forzare” le testimonianze residue, come abbiamo già visto per il caso avezzanese, è tipico dei centri emersi sulla ribalta regionale in età moderna che hanno cercato di “nobilitare” le origini collegandosi necessariamente con la romanità e l'esistenza di una città antica che giustificasse le fortune recenti. L'operazione ha dato origine ad un campanilismo spesso esagerato ed a scapito di una seria ed equilibrata analisi critica. In realtà le origini di Avezzano sono sufficientemente documentate sia dai resti archeologici, dalle fonti storiche ed epigrafiche e dalla superstite toponomastica altomedievale, come vedremo nelle trattazioni seguenti. Agli evidenti errori interpretativi descritti bisogna aggiungere anche il travisamento di parte della toponomastica dell'area da parte dei geografi militari sabaudi che, nella seconda metà dell'ottocento, realizzarono le prime carte dell'Istituto Geografico Militare del nuovo Regno d'Italia. La incapacità di comprendere il dialetto locale da parte dei “nuovi dominatori” piemontesi creò false denominazioni delle montagne locali: il medievale “Monte Arrio” con il suo centro-fortificato marso di “Castelluccio” sul Salviano, divenne “Monte Aria” (De Cristofaro 1999), la “Cima Grande” divenne “Monte Cimarani” e la “Cima S. Giovanni d'Alezzo” divenne “Monte S. Felice” (Morelli 1968, lett. 3). Questa indisponibilità alla comprensione delle lingue locali ha creato serie difficoltà nello studio della toponomastica dell'Italia meridionale ed alla localizzazione di vecchi insediamenti da parte dei ricercatori contemporanei. Si deve all'attuale lavoro di ricerca archivistica la possibilità di correggere questi errori e di ricollegare esattamente al loro posto i toponimi originari. a cura del Prof. Giuseppe Grossi | |
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